I legami di prossimità: Famiglie, Reti, Cittadinanza

Il 17 ottobre del 2008 sono stato invitato dalla Provincia di Bergamo al convegno: Promuovere la genitorialità e accogliere le fragilità delle famiglie. Ho fatto l’intervento dal titolo in alto… Riporto il testo del mio intervento, anche se è lungo, che si può comprendere meglio se si scarica la presentazione, cliccando qui.

Buon pomeriggio e innanzitutto vi ringrazio per l’invito perché partecipo volentieri alle occasioni in cui posso incontrare persone, conoscere esperienze, imparare cose nuove; avere scambi con realtà diverse è un’opportunità importante, e lo è soprattutto quando l’invito viene da un luogo e da un percorso significativi come questi.

Il mio intervento è accompagnato da una serie di diapositive “siglate” da una mia caricatura, un “timbro” che mi porto dietro da venticinque anni, e cioè da prima che mi sposassi e di cui mi piace spiegare l’origine: me l’ha fatta un ragazzo tossicodipendente di una comunità di accoglienza ed è stata molto profetica. Dietro la caricatura, in basso, si possono individuare dei bambini, di cui l’ultimo a sinistra ha un “lecca lecca” giallo; allora non ero ancora sposato, ma nella nostra esperienza matrimoniale, oltre ai nostri quattro figli di cui uno adottato, abbiamo avuto la grande opportunità di accogliere a casa nostra molti bambini e ragazzi in difficoltà.

Oltre il ruolo istituzionale di componente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, volevo farvi partecipi anche di questo aspetto perché, per professione e per scelta di vivere la famiglia in un certo modo, il tema dei legami del rapporto con l’infanzia e con l’adolescenza in particolare, ma anche con le famiglie di origine dei tanti bimbi passati per casa nostra, è un elemento importante e “legato” all’interdipendenza tra pensiero e azione che ha segnato costantemente la mia esperienza.

Famiglia oggi tra crisi, idealità e realtà

La famiglia oggi, ma abbiamo appena visto che non solo oggi, è sicuramente in una crisi di identità, tra idealità e realtà, ma oggi per tutti i tipi di famiglie c’è una difficile normalità da vivere, vuoi per oggettive condizioni di vita più faticose per la maggior parte delle famiglie (proprio ieri abbiamo saputo dalla stampa che ci sono almeno quindici milioni di poveri nel nostro paese), ma anche per approcci culturali e ideologici al tema famiglia che hanno cambiato, confuso e stravolto alcune certezze.

È vero anche che, opportunamente, alcuni luoghi comuni non ci sono più, tipo: “Non c’è più la famiglia di una volta”, però va rilevato come non ci sia più una famiglia “normale”. Ma viene da chiedersi che cosa significa “famiglia normale”? Anche la “normalità” della famiglia è più un luogo comune, una costruzione mentale e una difesa rispetto alle prospettive di cambiamento e alle sfide che essa ha davanti.

È sempre più vero che la famiglia oggi è, al tempo stesso, “capro espiatorio e angelo salvatore”: tutto quello che di negativo accade ad una persona “dipende” dalla famiglia, tutto si può risolvere o e tutti possono risorgere tramite la famiglia. Queste proposizioni rischiano di alterare i già difficili equilibri di chi vive, con fatica, le dimensioni relazionali in famiglia.

Secondo me va anche superata un approccio che contrappone due concetti, quelli di “famiglia risorsa” e di “famiglia problema”; voi avete lavorato, molto opportunamente, sulla famiglia risorsa e uno dei work shop di domani tratterà anche questo, e proprio perché siete avanti su questa riflessione mi sento di ma chiedervi di superare la logica che distingue e rischia di avallare giudizi. Per rafforzare questa opzione ci aiuta il secondo intervento di presentazione, quando il signor Marchetti ha raccontato della mamma che ha consegnato la propria figlia alla famiglia adottiva evidenziando tutta la fatica della “famiglia problema” che forse non è diventata “risorsa” perché non è stata aiutata abbastanza. La prospettiva corretta non è quella della famiglia problema contro famiglia risorsa, ma un nuovo ragionamento a partire da quelle che sono le contraddizioni interne a tutte le famiglie.

I due interventi che mi hanno preceduto mi permettono di andare veloce, perché hanno evocato quadri teorici molto utili a orientarsi, su un secondo passaggio di questa prima parte del mio intervento: le contraddizioni interne alle famiglie.

Sicuramente c’è una falsa contrapposizione tra benessere individuale e benessere familiare e quanto abbiamo sentito ribadisce invece che c’è una precisa coincidenza proprio perché c’è un indissolubile legame tra la persona e la famiglia.

Un altro aspetto è l’autoreferenzialità di tante famiglie e quindi l’isolamento. Dalla crisi della famiglia degli anni ’70 alla famiglia “autopoietica”, cioè quella che tende a ridefinire continuamente sé stessa e si sostiene e si riproduce al proprio interno, senza percepire che questo riproporsi la porta verso quel “melo secco”, per riprendere un concetto espresso da chi mi ha preceduto, va verso una sterilità che non è solo quella del diminuito numero di figli, ma quella della incapacità di costruire relazioni e legami, dentro e fuori la famiglia. Oggi abbiamo spesso una famiglia sola tra tante famiglie sole.

Collegato a questo che anche il tema dei ruoli familiari: uomo – donna, genitori – figli e, abbiamo detto, figli – figli, cioè fratelli – fratelli e sorelle – sorelle. C’è una “parità” strana e confusiva che non aiuta la crescita delle persone che non sono “uguali”; sicuramente va recuperata una pari dignità tra i ruoli, ma proprio nella logica del riconoscere e valorizzare le diversità e nella prospettiva di garantire risposte adeguate e appropriate, quindi diverse, rispetto alla varietà dei bisogni.

È cambiato e sta cambiando sempre più, anche con le nostre “famiglie lunghe”, il rapporto intergenerazionale. La compresenza di persone con età diverse nella stessa famiglia può essere un’opportunità per le nuove generazioni, per costruire un nuovo patto di solidarietà, ma rischia di costituire un’occasione di contrapposizione, di frattura, una situazione che mette i giovani contro i vecchi e, forse, anche i vecchi contro i giovani.

In questa prospettiva il rapporto tra famiglia e cittadinanza si gioca attraverso una serie di nodi che avete già sviluppato, ma che ritengo utile riprendere.

La famiglia è un “oggetto” o un “soggetto”? Certamente la famiglia è qualcosa di più della “somma” delle persone che la compongono e quindi c’è la necessità che venga riconosciuta come unità collettiva per poter essere poi valorizzata, ma deve ancora prima diventare essa stessa “soggetto” e non “gruppo” di individui che hanno dei “legami”, spesso poco definiti.

La famiglia deve orientare il senso del suo esistere e la propria funzione; la famiglia è, o lo deve essere, l’anello intelligente tra individuo e società, può e deve essere il luogo dove le persone imparano a vivere meglio le relazioni sia interne che esterne.

Per cui anche il “pubblico” e il “privato”, tra eccessi, tentazioni e squilibri, sono concetti da ridefinire in relazione alla famiglia, anche perché ci sono paure, tentazioni, strumentalizzazioni, nel mediare tra un ruolo pubblico e un ruolo privato della famiglia, un ruolo interno e un ruolo esterno della famiglia. Il salto da fare, e il vostro slogan “genitori sociali” lo esprime concretamente, è proprio quello del rilevare e valorizzare la famiglia per costruire la “società educante”. “Comunità educante” è un termine che ho letto per la prima volta nella prima relazione al Parlamento per l’attuazione della Legge 285/97 fatta dalla Regione Lombardia e in questa prospettiva abbiamo già detto della necessità che si riconosca una responsabilità educativa diffusa e che i nostri figli non sono figli nostri, ma anche quelli “affidati” in una logica di accompagnamento alla crescita e alla costruzione della propria identità.

Vanno riconosciuti, identificati e definiti i principali bisogni delle famiglie, va data priorità alla risposta ai bisogni di senso, di riconoscimento, di relazione, di appartenenza. Sono concetti che non declino perché vanno declinati da ogni famiglia insieme ad altre famiglie; li lascio anche ai vostri lavori di gruppo di domani.

Dal mio punto di vista è però necessario che oggi pensiamo alla famiglia tra crisi, idealità e realtà sia in termini di continuità, sia in termini di frattura, perché alcuni modi di essere famiglia non sono più così utili, non sono più adeguati a rispondere ai bisogni, alle sfide alle necessità delle persone che ci vivono e della collettività nella quale si è inseriti.

È per questo che ho chiesto agli organizzatori di inserire nel titolo del mio intervento i “legami di prossimità”, che non sono da contrapporre ai “legami di sangue”, che rimangono importanti, ma è sempre più evidente che i legami di sangue non sono più sufficienti, se mai lo siano stati.

Le famiglie più in difficoltà sono quelle che hanno scarsi legami di prossimità e quelle dove i legami di sangue molto spesso vengono visti in maniera esageratamente centrale, esclusiva e dove, quindi sono spesso stravolti.

Una “nuova” idea di famiglia

In questa situazione contraddittoria e confusa “avanza” una nuova idea di famiglia.

Il valore della famiglia sta nel richiamo ai legami forti, di fiducia, di sintonia, di affettività, di cura, di responsabilità, di vicinanza, di prossimità.

Per rispondere alla diffusa crisi d’identità della famiglia c’è chi propone non un modello, ma uno stile familiare centrato sulla relazione, su incontri e legami significativi.

La famiglia viene pensata (e si cerca di viverla) come luogo di dialogo, di comunanza (vita comune, prossimità, intimità, patto, accordo), di crescita dell’identità, come testimonianza di fedeltà a valori, personali e collettivi, e ad una progettualità, personale e collettiva.

Così intendo declinato il concetto di “familiarità”, l’essere, il fare, il vivere la famiglia.

Questa sala piena è la testimonianza che “nuove famiglie crescono”; famiglie che però hanno una difficile tipizzazione, che non sono riconducibili a caratteri univoci.

Spesso la disponibilità all’accoglienza è una dimensione importante e diffuso, ma il mio parlare di nuova idea di famiglia e di nuove famiglie va oltre il tema dell’accoglienza, anche se per me questa è una chiave interpretativa di un fenomeno limitato numericamente, ma significativo culturalmente e socialmente.

È difficile “catalogare” queste famiglie perché le coppie che le formano sono diverse sia rispetto all’età, alla professione dei genitori, sia al numero, all’età dei figli, alle reti parentali e al livello economico, culturale, abitativo che hanno e alle stesse motivazioni (religiose, politiche, etiche, sociali…) per cui nascono queste famiglie con una prospettiva di attenzione e di apertura al territorio.

Va trovato il “filo” che attraversa esperienze, culture e provenienze diverse. C’è una conoscenza, una comprensione e una consapevolezza da sviluppare, ma anche una scoperta, un percorso… recuperare i “fili” di una “matassa” di ricerca che da punti diversi porta a condividere, ancorché in maniera diversa, dei valori forti, difficili, oggi poco popolari.

Elenco soltanto quelli che sono principi, valori e coerenze, sia “personali” che “collettivi”, quali: Accoglienza, Affettività, Condivisione, Partecipazione, Persona, Progettualità, Quotidianità, Relazione, Responsabilità, Ecologia, Giustizia, Libertà, Pace, Solidarietà, Uguaglianza.

Sono principi, valori, coerenze da riempire di scelte ed esperienze reali e da declinare in maniera diversa, contestualizzata alle situazioni e ai territori, con la sensibilità e le peculiarità di ogni famiglia che cerca e utilizza un percorso concreto di incontro con altre famiglie e con la “diversità” delle famiglie.

Ho accennato in precedenza alla necessità di evitare la contrapposizione tra famiglia problema e famiglia risorsa.

Apprezzo molto che la preparazione di questo convegno sia “legata” a due gruppi tecnici che hanno lavorato insieme: uno sul sostegno alla genitorialità, uno sul sostegno alla fragilità. Questo vuol dire che non sono due percorsi separati e che l’uno e l’altro o si giocano all’interno della stessa sfida, oppure avremo sempre più famiglie fragili e avremo sempre meno sostegno alla genitorialità.

I gruppi di famiglie che io conosco e che incontro, sono sempre meno (se lo sono stati) i gruppi di famiglie “brave e belle”, che si chinano su chi è sfortunato, che “aiutano” le famiglie “brutte e cattive”; sempre più spesso sono gruppi che trovano il modo di accogliere anche le famiglie difficili, le famiglie fragili… proprio in una prospettiva di condivisione e di riscoperta, o di scoperta dei valori, personali e collettivi da vivere nella “reciprocità possibile”.

Questa “famiglia nuova” che comincia ad emergere è sempre più una famiglia che è rete sociale e che fa rete sociale.

È una famiglia che “si vive come rete”, quindi cura le relazioni dei vari componenti, e che “vive la rete”, perché è un luogo dove ci si impegna per rispondere alle attese delle persone e per il futuro delle persone; dove si progetta, si costruisce e si sperimenta una modalità diversa di vivere la famiglia dentro e fuori la famiglia.

Questa ampia tipologia di famiglie nelle dimensioni intra familiari ed extra familiari pensa, sceglie, agisce, con una fatica notevole e crescente, ma ha capito che l’unico modo per poter vivere e resistere in una realtà che troppo spesso, nei fatti, nega il valore della persona, prima che il valore della famiglia, è proprio quello di riprendersi il pensare, lo scegliere e l’agire.

Questi tre verbi, collegati ai principi e ai valori richiamati in precedenza, generano importanti, ancorché diversi, stili di vita familiari. Queste famiglie hanno capito che i “mondi vitali” che attraversa la famiglia sono talmente interconnessi che non è possibile che una famiglia faccia una qualsiasi scelta scollegata dal resto. Se la mia famiglia, per esempio, fa accoglienza, non può rimanere unicamente centrata solo su questo, ma cerca di fare scelte coerenti con quella dimensione.

Ci sono “scelte” necessarie e possibili negli stili di vita di queste famiglie. Una famiglia che si muove in questa prospettiva è una famiglia che cura anche l’abitare, con uno stile di sobrietà, di attenzione, di semplicità. C’è chi parla di una “decrescita felice” necessaria, per cui si fa attenzione al lavoro che si fa e alle sue implicazioni, al modo di consumare, al proporre ai bambini (i propri e quelli accolti) modelli di consumo che si contrappongono a quelli di “merendine e televisione”. Si sperimentano modelli culturali e di consumo diversi e proponibili, anche perché le famiglie più fragili, le famiglie più in difficoltà sono anche quelle meno attrezzate a reagire e a non rimanere ammaliate dalle “sirene” di un mondo che non esiste, ma che luccica e stordisce.

Si coltivano stili di vita che ricercano la “fatica” delle relazioni esterne alla famiglia, perché cercare relazioni con altre famiglie è faticoso, come è gravoso, ma esaltante, costruire la solidarietà, l’impegno civico, il vivere il tempo libero non come tempo vuoto o, peggio, come tempo obbligato da riti collettivi di cui si è perso il senso ed il significato… e richiamo l’intervento di saluto del Sindaco che ha citato l’organizzazione di una festa in piazza per i cittadini del suo paese.

Famiglie “in rete”: una prospettiva reale

La modalità famiglia “in rete” è, in relazione a quanto ho cercato di argomentare fino ad ora, una prospettiva reale. La famiglia non è un “affare di famiglia”: il concetto di “familiarità” va concepito in modo estensivo e la “familiarità” estesa ha fatto maturare una rete di relazioni fra nuclei familiari finalmente aperti allo scambio e alla reciprocità.

Una “reciprocità possibile” che, per esempio, riguarda anche le famiglie d’origine dei minori accolti nelle famiglie affidatarie. Cerco di avere sempre presenti queste famiglie fragili e sofferenti perché sono quelle che mi hanno insegnato molto. Eravamo appena sposati e frequentavamo una famiglia che non solo era la “più disgraziata” del paese, ma aera anche quella raccoglieva gli aiuti di tutti, per esempio, i vestiti usati (avevano sei figli). Lo stesso paese che regalava loro questi abiti, inorridiva sul fatto che una volta che questi vestiti erano sporchi li buttavano… mi sembra comprensibile che, se hai a disposizione un numero infinito di pantaloni, ti chiedi “perché” li dovresti lavare se, tra l’altro, non sei stato abituato a lavarli… e quindi li butti. Non è giustificabile, ma comprensibile. E in quella casa non entrava nessuno. Come, io e mia moglie, siamo riusciti ad entrare a casa loro? Quando abbiamo chiesto una la “tovaglia” elegante e il “servizio buono” per fare il pranzo del battesimo del nostro primogenito. Per la prima volta qualcuno chiedeva loro qualcosa e non regalava il superfluo; si sono sentiti considerati, per la prima volta, soggetti in grado di dare, e questo ci ha permesso di sperimentare quella reciprocità, quella pari dignità, pure in una situazione di simmetria reale, evidente e stridente, che ha favorito una relazione positiva.

Le famiglie “in rete” non sono un modello da imitare, ma certamente sono tanti esempi del possibile.

Ma chi sono le famiglie in rete? Va detto prima cosa, certamente, non sono e non devono essere. Ad esempio non sono il “sindacato” delle famiglie. Le famiglie non devono avere bisogno di un sindacato, e tanto meno, non devono essere la controparte di istituzioni e servizi.

Mi piace definire le famiglie “in rete” come la “cintura di galleggiamento” delle famiglie che la compongono, quella che sostiene le famiglie (anche quelle in difficoltà) e come il “segno della prossimità solidale” nel territorio, di una familiarità estesa.

Diverse sono le opportunità per le famiglie “in rete”; sono occasione o possibilità di incontro, di confronto, di conciliazione dei tempi e delle relazioni, di accompagnamento e sostegno, di presenza, partecipazione, proposta, sensibilizzazione del territorio e su queste dimensioni, come spiegherò fra poco, si inseriscono anche le istituzioni che possono garantire un importante effetto volano per dare continuità a questo processo di relazioni e di legami che cresce dal territorio.

Cittadinanza e Prossimità

In questo percorso di ricerca i due concetti che vorrei tratteggiare brevemente sono quelli della cittadinanza e della prossimità.

Ci sono uno, dieci, cento, mille modi di organizzare la vita in comune e, quindi, di vivere la dimensione della cittadinanza. Le regole di convivenza della collettività possono “variare” da un contratto di cittadinanza forte a un contratto di cittadinanza debole a seconda di quello che fa più comodo a chi gestisce il potere o di quello che è più opportuno, per tanti motivi, e condiviso. Purtroppo nel nostro Paese, oltre a riscontrare un allentamento dei fattori di coesione, sembra comunque prevalere una contrapposizione tra diritti e doveri nel modo di interpretare il proprio essere cittadini che è riduttiva rispetto alla sempre più necessaria prospettiva di un “patto di cittadinanza”.

Questi nuovi cittadini, queste nuove famiglie, sanno (perché nella fatica lo stanno sperimentando) che il vivere una relazione interpersonale anche all’interno di una collettività non può voler dire solo che “Io ho questi doveri” (in genere pochi e oggetto di poco impegno) “…ma ho questi diritti” (di cui si pretende la esigibilità quando, magari, sono solo interessi se non addirittura privilegi). La relazione e la cittadinanza vissuta come “patto” implica la responsabilità, va oltre i diritti e i doveri, è un prendersi cura di quello che accade, ognuno per le proprie competenze e livelli di onere.

La prossimità si configura come bisogno di vicinanza, di ascolto, di senso. La nostra è la società dei mille incontri e delle zero relazioni, che ha perso il rapporto tra le persone, tra le istituzioni e cittadini.

Però è proprio questa società che ha bisogno di creare prossimità, altrimenti: per le persone c’è l’anonimato e la solitudine e per quelle più fragili la disperazione e l’isolamento; per le istituzioni la perdita di contatto con le delicate articolazioni della società.

Per questo io penso che la prossimità, a questo punto, può e deve qualificare la cittadinanza.

Che significa prossimità? Anche in questo caso vi lascio il “compito” di declinarlo come riterrete più opportuno; per me significa essere vicino empaticamente, approssimarsi alle persone, andare vicino… Anche per chi non è cristiano; e faccio riferimento alla parabola del “buon samaritano” dove io immagino il “farsi prossimo” come lo spostarsi dalla propria, comoda e sicura, parte della strada per andare dall’altro lato a prendersi cura della persona attaccata dai ladroni.

Prossimità come avvicinamento, senza risposte predefinite e prefissate; come ricerca e costruzione di domande, un riconoscimento reale della diversità per la costruzione di un cammino comune e condiviso… Riconoscimento reciproco come vicinanza senza omologazione e riconoscimento di diritti e doveri che diviene reciprocità: legame sociale. Farsi prossimo non come scambio, ma come sperimentazione della gratuità delle relazioni, in un costante impegno quotidiano.

La “prossimità della cittadinanza” la trasformerei nell’idea di “vicinanza solidale”; una vicinanza solidale che è proporzionale: alla consapevolezza dei diritti, alla diffusione dei diritti, alla consapevolezza sui doveri inderogabili di solidarietà, all’aumento della cultura sui bisogni cui dare risposta (opportunità da garantire), alla convergenza sui fini nella interazione tra soggetti, alla convergenza sui mezzi da utilizzare per raggiungere i fini, al grado di corresponsabilità che ogni soggetto agisce.

Sottolineo che non ci può essere vicinanza solidale senza diritti e non ci può essere se non si da risposta adeguata alla crescente consapevolezza dello scarto che c’è tra i diritti sanciti e la loro esigibilità reale.

Provo a farmi comprendere con un esempio riferito alla mia esperienza di affidamento familiare.

Le motivazioni iniziali della nostra scelta si riferivano alla convinzione che avremmo aiutato, “salvato” dei bambini, ma, grazie a loro, abbiamo capito che non era corretto. La vicinanza con loro, con le loro sofferenze ed esigenze ci ha fatto comprendere il motivo, vero e essenziale, va ricercato nel bisogno di giustizia, nella necessità di garantire loro quei diritti che gli erano stati negati anche.

Questa prospettiva ha delle precise conseguenze e implicazioni per persone, famiglie e comunità locale perché è attraverso la “vicinanza solidale” che si costruisce la “cittadinanza solidale”.

Nell’introduzione al convegno si parlava di sinergie, dei mezzi da utilizzare per raggiungere i fini e si faceva riferimento al grado di responsabilità, cioè al doppio significato di questa parola che è un cardine della “cittadinanza solidale”: saper dare risposta, essere capaci di rispondere, ma anche dover dare risposta, rendere conto ad altri (ricordo la responsabilità “di fine mandato” cui faceva riferimento l’Assessore provinciale), il dovere rendere conto di quello che si è fatto.

Le implicazioni verso la “cittadinanza solidale” riguardano molte strade da percorrere: da quella dell’integrazione a quella delle sinergie, da quella del coordinamento a quella della corresponsabilità e della reciprocità. Ci sono anche diverse scelte da fare: etiche, politiche, economiche, tecniche, professionali… e non a caso non le ho enunciate in ordine alfabetico. All’inizio c’è, ci deve essere, quella etica, abbandonando gerarchie e autoritarismi, burocrazie e procedure che mortificano lo spirito delle leggi, privilegi e interessi di parte… Non sto chiedendo di mischiarsi in una “marmellata” di frutta diversa dove non si riesce a riconoscere i diversi sapori, anzi, sto affermando che, come abbiamo sentito anche stasera, la propria identità si valorizza e accresce nel momento in cui scopre e si incontra l’alterità.

Le strade da percorrere devono favorire: la prossimità dei linguaggi, la conoscenza comune dei problemi, la convergenza sui valori e sui principi e la condivisione di obiettivi.

Questi “passaggi” li ho scritti prima di leggere del vostro percorso, ma sono contento che ci siano delle sintonie con quanto state facendo in questo territorio.

L’implicazione complessiva (e la conseguenza) è la reale valorizzazione del protagonismo delle persone e delle famiglie.

Prima di concludere propongo alcune piste per approfondire l’idea di partenariato e reciprocità tra ente pubblico e famiglie in rete, con reti più o meno formali e, dal mio punto di vista, meno formali sono, meglio è.

Il partenariato è la comune partecipazione a una stessa impresa e, almeno a vederlo dall’esterno mentre ci saranno difetti e difficoltà, è quello che si sta tentando di fare in questo territorio su questi temi. La partecipazione, prima di essere un fine è un valore e una modalità di lavoro.

È necessario che l’ente pubblico, rispetto alle famiglie in rete, costituisca l’organo di confronto e coinvolgimento delle famiglie stesse per garantire un effettivo processo di consultazione, concertazione, corresponsabilità, cogestione nella vita di un territorio.

La consultazione è il luogo in cui ognuno contribuisce con le proprie conoscenze alla definizione del “profilo di comunità”; la concertazione è la modalità di costruire insieme gli obiettivi condivisi da raggiungere; la corresponsabilità è costruire una corretta responsabilità comune per rispondere ai bisogni con strumenti gestiti insieme tra i diversi attori e portatori di interessi qualificati (cogestione).

È necessario che le famiglie, verso l’ente pubblico, assumano responsabilità sociali in relazione alla garanzia dei diritti di cittadinanza, siano tramiti e garanti di questo impegno, con particolare riferimento alle fragilità. Le famiglie entrano in collaborazione con altri soggetti, pubblici e del privato sociale, secondo una logica di rete.

Questa prospettiva “biunivoca” implica che il ruolo dei servizi deve essere quello di facilitatore del sistema per le famiglie in rete.

La strategia della prossimità nasce e cresce come esigenza di ricomposizione e convivenza. Non si stratta tanto o solo di costruire “servizi di prossimità”, ma di favorire la crescita dei legami di prossimità.

Per lavoro mi occupo di integrazione sanitaria e di organizzazione dei servizi sociali e sanitari e in quest’area va molto in voga, soprattutto per le situazioni di esclusione sociale, ragionare su “servizi di prossimità”, costruire “servizi di prossimità”. Naturalmente è importante realizzare opportunità per “agganciare” le persone più lontane, più escluse, meno attrezzate nel rapporto con i servizi, ma la prospettiva principale deve essere proprio quella di favorire la crescita dei legami di prossimità anche all’interno di quei servizi che di prossimità non sono, perché sono molto strutturati e, troppo spesso, autoreferenziali.

La prospettiva da privilegiare è quella di creare dei servizi come “luoghi normali” di vita e non come “luoghi speciali”, limitando l’utilizzo di servizi “speciali” a particolari situazioni di emergenza e gravità che durino il meno possibile. I luoghi, necessari e possibili, dove favorire la prossimità sono veramente quelli della quotidianità, delle case e delle strade dove vivono le persone e le famiglie: la famiglia e l’incontro con le famiglie; la casa con la necessaria distinzione tra i concetti di “home” e “house” di “dimora” e “abitazione”. Io contrappongo “dimora” ad “abitazione”, anche se è un termine ormai desueto, ma la dimora richiama proprio le relazioni familiari giocate all’interno di una casa, con un “camino” che scalda e che raccoglie, e che permette di fondere le relazioni mantenendole distinte.

Altri luoghi sono il quartiere, i servizi sanitari, sociali, educativi, il lavoro, il tempo libero, l’associazionismo, lo sport… con dinamiche che si intrecciano e si complicano, perché ognuno di questi soggetti ha una prospettiva specifica, ma da tenere insieme, nonostante tutto.

La diversa normalità possibile

Nell’ultima diapositiva della presentazione si propone la diversa normalità possibile, un concetto che si comprende e si costruisce a partire dalle parole che ho detto, ma che, anche in questo caso, è da declinare secondo il vostro sentire e il vostro vivere i legami dentro e fuori la famiglia.

Insieme ad altri, ormai da anni, ci riferiamo alla diversa normalità possibile come ad un modo diverso di viere la quotidianità, ma qualcuno recentemente mi ha detto che forse è meglio parlare di una diversità normale possibile, perché la normalità non esiste più, essendo stata sostituita da una diffusa ed estrema diversità. Un’argomentazione che mi sta convincendo, perché ormai esistono tante diversità, ognuna delle quali deve avere la dignità di essere considerata “normale” se motiva e giustifica il proprio essere nella prospettiva della costruzione di legami forti e significativi.

Per concludere e specificare la diversa normalità possibile propongo la condivisione, una parola molto forte e impegnativa che può concretizzare i legami di prossimità e la vicinanza solidale.

«La condivisione rappresenta il crinale lungo il quale si declinano itinerari credibili, possibili e praticabili di diversa normalità e di sperimentazione di cittadinanza attiva. Dalla condivisione della vita quotidiana, nella dimensione reale dell’esistenza affermiamo con determinazione che la relazione di aiuto deve calarsi all’interno delle situazioni reali dell’esistenza, lì dove è possibile esercitarsi nella conoscenza di sé, dei propri limiti, delle proprie possibilità in uno sforzo e una scelta di stare tra coloro che accompagniamo, e rinunciando alla scelta passiva del “portare” e del “farsi carico”.» (da “Pensare a rovescio” C.N.C.A.)

La definizione che propongo la condivido perché ho vissuto questo approccio e perché la prospettiva del farsi carico, dell’accompagnamento, di una vita quotidiana giocata in una prospettiva di gratuità è una pista che si può percorrere.

In ogni diapositiva della presentazione avete visto delle immagini di Keith Haring, quel signore che nella sua vita ha disegnato sui muri questi e tanti altri disegni, rappresentano la cultura di strada della New York degli anni ’80. Io non so dipingere però, parafrasando quando scrive «Dipingerò quanto potrò, per quante persone potrò, per quanto a lungo potrò», penso che il “fare famiglia”, l’impegnarsi per una famiglia può essere vero per me e per tutti: «Cercherò di fare famiglia quanto potrò, per quante persone potrò e per quanto a lungo potrò».

Grazie.

I legami di prossimità: Famiglie, Reti, Cittadinanza
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